Enrico Berlinguer non lo ricordano le giovani generazioni, ma per la mia fu un uomo simbolo. La sua capigliatura folta e corvina, squadrata come quella di un cartone animato giapponese circondava il viso di un’età indeterminata e i suoi tratti luminosi erano scolpiti come marmo di Orosei perché, nella roccia, il tempo sedimenta trasformazioni con una lentezza geologica, impercettibile.
Gli occhi, dentro a un taglio sottile piegato ai lati estremi, fin quasi a toccare le radici delle orecchie puntute, emanavano un nero di timore e fermezza, di benevolenza e caparbietà: la bocca, lineare e assottigliata, faceva prevalere ora l’uno ora l’altro dei due sentimenti opposti.
Parlava di lotta Enrico, di strategie d’attacco e di difesa come un condottiero in guerra, ma solo contro i nemici della democrazia, che si trovavano, a quel tempo, tanta alla sua destra quanto a sinistra e, in modi diversi, negavano le regole di quel gioco paritario unico ispiratore di una forma di convivenza civile libera e armoniosa. Ci voleva un guerriero visionario per contrastare poteri forti, mortiferi e occulti da una parte, e un’incarnazione antidemocratica del suo amato socialismo non meno oscura e liberticida dall’altra. E ancora oggi non è vinto nel nostro paese quella che lui considerava la principale discriminante tra comportamento democratico e reazionario: lo sfruttamento dell’uomo attraverso l’abuso del potere sul lavoro, esercitando così potestà di vita o di morte sulla vita del prossimo.
Parlava di lotta il “sardo muto”, ma quando stringeva le mani ai compagni apriva il cuore più generoso, rivolgendo loro lo sguardo infantile – e arguto insieme – del giocatore di vita curioso e appassionato.
Ci si fidava di lui, delle sue parole perché, come diceva Benigni, era il compagno che si portava la merenda da casa e la offriva, e in vita sua non aveva rubato neppure un pennino; perché si teneva la parte di stipendio da parlamentare equivalente al salario medio di un operaio e non sbandierava questa scelta con nessuno, ma tutti lo sapevano. Il resto dei soldi li affidava al partito, la sua seconda famiglia e allora tanti militanti, per quanto potevano, facevano lo stesso per senso di appartenenza, amore per una causa che magari non coglievano appieno, ma li faceva sentire vicini, concordi, uniti.
L’ultimo uomo politico italiano ad avere ricevuto un abbraccio d’addio da una folla così oceanica, fatta di ricchi e di poveri, di intellettuali e di operai, di potenti e di tanti ultimi, che anche lui considerava i primi era una persona cui non si poteva che voler bene, anche se non lo si conosceva a fondo.
Proprio come fanno i poeti con le loro opere, che producono silenziosi cambiamenti nelle coscienze di intere generazioni, entrano lentamente nei pensieri, ma restano più a lungo, rigurgitando nodi di nostalgia.