/ Camminar pensando

Camminar pensando | 23 dicembre 2023, 10:30

Il giardiniere del Lama - Una storia fantastica

Capitolo TRE

ph. Mauro Carlesso

ph. Mauro Carlesso

Nei capitoli precedenti: Ulian, abbandonati gli studi e dopo due stagioni di lavoro nei campi giunge al Castello che gli ha indicato la sorella e dove un po' spaesato inizia a prendere contatto con il Lama che gli assegna il lavoro di giardiniere.

“Era chiaro che nei sei giorni stabiliti dal Lama il lavoro svolto non avrebbe potuto che essere parziale così insieme ai due accompagnatori mi concentrai su quali fossero gli interventi prioritari affinché, all’alba del settimo giorno avessi potuto guidare il Lama nella sua prima agognata passeggiata.  

Presi visione delle mappe e di qualche progetto che in passato era stato approntato dai precedenti proprietari per dare una forma all’immenso spazio verde ma per la poca chiarezza delle carte mi decisi a predisporre direttamente io un rilievo dello stato attuale. Operazione che mi fece sorridere dato che col disegno sono sempre stato negato: quello tecnico poi! 

Ma non mi scoraggiai. Insieme ai due monaci che parlavano un tragico misto di inglese scolastico e di pessimo italiano, quel giorno percorsi in lungo ed in largo l’intera proprietà passando e ripassando più volte nei punti critici. In serata avevo già preparato un rudimentale schizzo del giardino sul quale con un pennarello rosso tracciai quelli che sarebbero stati i primi interventi da fare. 

Accomiatai i due assistenti. Mi recai in mensa. Avevo fame. C’erano poche persone e nessun monaco. I presenti erano quasi tutti stranieri e sembravano tutti assorti nei propri pensieri. 

Il cibo era a disposizione con modalità self service e non mi sorprese che fosse composto solo da vegetali. Erano tempi nei quali il vegetarianesimo, mentre era consuetudine millenaria dei popoli orientali, in occidente stava muovendo i primi passi. Mangiai voracemente con la testa che mulinava idee a più non posso. La sala era ormai semideserta quando di fronte a me appoggiò il proprio vassoio un ragazzo che mi disse di chiamarsi Maravan, era il cuoco cingalese col quale iniziammo la prima chiacchierata che avviò quella che sarebbe stata una stretta e duratura amicizia. Quella sera Maravan mi raccontò che mia sorella aveva lavorato con lui in cucina per parecchio tempo e fino al giorno prima del mio arrivo. Olena, così si chiama mia sorella, è sempre stata uno spirito libero e ribelle. Come me, forse anche di più. Non abbiamo contatti se non sporadici, occasionali, casuali. È fatta così. E anch’io, sotto certi aspetti, sono fatto come lei. 

Ricordo che quella prima notte mi ritirai nella mia camerata con in testa mia sorella, il cuoco, il Lama, il giardino, lo schizzo col pennarello rosso, il trono-altare che turbinavano senza sosta tenendomi in un pensoso stato di dormiveglia fino al sorgere del sole che non avevo mai atteso con così tanto desiderio. 

Scesi in giardino. Mi recai nel chiosco e, scelti gli attrezzi cominciai a tagliare, potare, spostare, trapiantare, rinvasare e pulire con uno slancio che non avevo mai conosciuto. Mentre cercavo di districarmi da un cespuglio nel quale mi ero ingarbugliato sentii delle voci sommesse. Smisi di dimenarmi e tesi l’orecchio percependo, più che delle voci dei risolini. Mi voltai e seduti comodamente su una panca vidi i miei due monaci che assistevano divertiti allo spettacolo che stavo involontariamente offrendogli. 

Ripresi con più lena il mio lavoro sempre sotto gli occhi un po' divertiti ed alle volte preoccupati dei miei due cosiddetti assistenti fino a sera. Saltai il pranzo ritrovandomi in compagnia di Maravan a divorare la cena con più avidità della sera prima. Da quella notte iniziai a dormire profondamente fino a quando i miei assistenti mi sussurravano la sveglia con i loro mantra. 

I giorni di lavoro successivi seguirono la routine del primo, così come le cene voraci, le chiacchiere con Maravan, le notti col sonno di piombo e le sveglie sussurrate. 

Anche l’ultima notte dormii pesantemente nonostante all’alba di quel settimo giorno non avrei saputo bene cosa mi sarei dovuto aspettare. Tuttavia il lavoro che mi apprestavo ad illustrare al Lama mi piaceva ed ero certo che sarebbe stato apprezzato. Così almeno speravo.” 

Ulian smette di parlare. Siamo sempre fermi al centro del campo con lo Stupa. Il buio incalza. Attorno a noi non c’è nessuno. Solo in lontananza, qua e là sparse nei campi all’orizzonte si intravvedono ancora figure piccole come fossero puntini che si muovono in modo apparentemente casuale. Ma forse solo apparentemente. Io mi sento strano ed anche stanco fisicamente: il lungo viaggio in auto per giungere fin qui, a quest’ora si fa sentire. Ma il ronzio infinito del battere d’ali delle infaticabili api mi rinvigorisce. Ulian tace ancora ed io benché desideroso di venire a capo della storia fantastica della quale sono auditore, non apro bocca fino a quando l’amico non riprende il suo racconto. 

“Quel giorno, mi dissero svegliandomi i miei assistenti, per il Lama sarebbe stata una giornata impegnativa in quanto erano in visita presso il Castello degli alti dignitari delle remote regioni della Curlandia, della Livonia e della Pomerania. Il Lama, mi aggiornarono, era già da tempo a meditare con loro nel Gompa prima di dar corso ai colloqui interreligiosi e diplomatici. Accidenti, mi scappò di dire, proprio oggi che è il grande giorno! (… che poi, in realtà, sarebbe stato il gran giorno per me, per il mio “Io”). Guardando la passività dello sguardo dei due monaci alla mia reazione mi accorsi quanto ancora dovevo assorbire, far mio ed imparare per non cadere nella solita tentazione di innalzare l’orgoglio personale in luogo del servizio alla Comunità: “diminuire io per far crescere l’altro…” mi balzò in mente in modo netto, chiaro e da allora indimenticabile. 

Accompagnato dai miei ormai fidi compagni mi recai nel Gompa silenzioso e luminoso come non avevo mai visto. Il Lama era seduto sul suo scranno (chiamarlo trono non mi sembrava appropriato) mentre i dignitari, una decina, sedevano a terra, a gambe incrociate in varie zone del vasto salone. Noi tre avevamo appena varcato la soglia di accesso quando vidi il Lama, ancora con gli occhi chiusi, alzarsi e venire verso di noi. Lentamente e silenziosamente. I monaci lo accolsero con un inchino che imitai e lo affiancarono fino all’inizio dello scalone che conduceva al piano terreno che recava nel tanto bramato (più da me, forse che dal Lama, non saprei dire) giardino. Tutto ciò avvenne sempre nel silenzio e con gli occhi sempre chiusi (o socchiusi, immaginavo, per evitare malaugurati inciampi). Io avvertivo un leggero imbarazzo e non avevo idea di cosa dovessi fare o dire. Come sempre fu lui, il Lama a sciogliere il nodo della situazione. Raggiunto il piano terra uscimmo in giardino. La giornata si preannunciava splendente. Il sole era ancora radente ma già visibile e gratificante. L’aria era tiepida ed il silenzio era frammentato dai canti degli uccelli che a quell’ora cinguettavano a più non posso. Le caratteristiche lung-ta, le bandiere di preghiera orizzontali, sventolavano multicolori nella brezza che percorreva la luce radiosa della mattinata. 

Darchor (bandiere di preghiera verticali). Ph. Mauro Carlesso

Il Lama aprì gli occhi, parlò coi monaci in nepalese e rivolgendosi a me disse ‘E’ ora. Accompagnami nel giardino.’ In uno sciocco moto di preoccupazione chiesi se non fosse opportuno rimandare la passeggiata in un altro momento vista la presenza dei dignitari lasciati soli. Il Lama disse ’Ai dignitari ho assegnato un compito che li terrà impegnati per tutto il tempo che impiegheremo noi a visitare il giardino: gli ho chiesto di dividere all'interno di sé stessi la felicità dalla sofferenza, ne avranno abbastanza! E aggiungo che se il tuo lavoro risulterà ben fatto anche i dignitari, all'interno del Gompa ne riceveranno beneficio.’ 

Come un piccolo corteo ci avviammo lungo il viale principale che dal piazzale del Castello conduce alla zona degli Stupa, prosegue con andamento sinuoso verso l'area adibita a parcheggio e ritorna con ampio giro sotto le grandi alberature al piazzale principale. Il percorso si snoda nell’area più frequentabile dell'intero giardino motivo per il quale ho dato priorità di intervento. Il prossimo spazio da sistemare avevo deciso fosse quello destinato al Tushita, come chiamano i monaci il Giardino del tè per il quale avevo in mente di creare un’atmosfera di tranquilla consapevolezza, di armonia e di calore nella pace del giardino. Pensavo di allestirlo in un angolo particolarmente intimo vicino alla grande ruota di preghiera. Per il Lama (bla-ma in tibetano), per i monaci ed i visitatori sapevo sarebbe stato un luogo importante. In quei pochi giorni al Castello avevo appreso che per i monaci buddhisti, bere il tè è sempre un’occasione speciale di festa ed anche perché, come loro affermano, il tè purifica e aiuta ad allontanarsi dalla polvere di questo mondo.

Il singolare corteo procedeva a coppie: io e il Lama anticipavamo i due amici monaci ai quali si era aggiunto, in coda, il monaco assistente del Lama. Ogni tanto ci fermavamo a respirare ed osservare il nuovo ordine che avevano assunto le siepi ed i cespugli. Tutto appariva più armonioso e pacificante.  Tutto evocava stupore, adorazione e preghiera. 

Ricordo ancora che per fare quel tratto tutto sommato breve impiegammo parecchio tempo. Le soste erano prolungate ed in ognuna di esse ci si sedeva sulle panche o sui massi dislocati lungo il percorso in silenziosa contemplazione. Durante la passeggiata incontravamo ospiti che salutavano in modo deferente il Lama al mio fianco che sembrava non vederli neppure. Io non sapevo cosa dire ed il Lama con mio incipiente disappunto non diceva, non commentava e non chiedeva niente. Il timore che qualcosa non fosse di gradimento del mio illustre committente cominciava a serpeggiarmi nella testa e nel cuore. Davanti alla grande ruota Mani il nostro drappello si fermò ed il Lama prese la parola. Per dire assai poco per la verità: ‘Contrariamente a quanto alcune persone potrebbero credere, non c’è nulla di male nell’esperienza del piacere e del godimento. Quel che è sbagliato è il modo confuso con cui ci aggrappiamo a questi piaceri, trasformandoli così da una fonte di felicità in una fonte di dolore e di malcontento’ 

Ruota Mani (ruota di preghiera). Ph. Mauro Carlesso 

Capii che si riferiva a me ed al mio lavoro. Avevo provato piacere nell’eseguire l’incarico e questo godimento aveva generato in me orgoglio. Ti dicevo che l’assenza di commenti del Lama mi stava innervosendo, dimostrazione di come a quel piacere mi ero, per usare le parole del Lama ‘aggrappato in modo confuso’. Il piacere nell’esecuzione del mio lavoro così come il godimento da parte del piccolo seguito del Lama a passeggio, come per tutti gli altri che avrebbero percorso questi luoghi non poteva restare confinato all’interno di sé stessi ma doveva essere elargito, dispensato, donato in maniera compassionevole a tutti gli esseri senzienti della Terra, senza distinzione alcuna. 

Il Lama si allontanò con il suo assistente non prima di dirmi ‘ci vediamo domani mattina all’alba’ che non potei non classificare come il complimento tanto desiderato. Un complimento che però riuscii facilmente a sopprimere sebbene nella mia vita, ovvero in quella precedente, erano proprio quei complimenti ad aver contraddistinto la mia determinazione votata alla ricerca di gratificazioni. Quel giorno mi resi conto di quanta strada avevo già percorso camminando nella direzione contraria all’egoismo e diretta invece verso la mia vera vocazione: fare qualcosa per gli altri. Quel giorno pensai anche che quando dissodavo la terra con un’energia che mi sembrava piovere dal Cielo erano i complimenti di compare Anania a darmi la voglia di affrontare il giorno successivo con lo stoicismo nel quale mi ero confinato. Seppur spartanamente vivevo per sentirmi gratificato e ben lungi dalla cultura del distacco dal piacere illustratami quel giorno dal Lama con una sola frase. 

Passarono gli anni e la mia consapevolezza crebbe al pari della bellezza pacificante del giardino. In quel tempo un ragazzo cecoslovacco giunto come ospite del Castello e divenuto poi residente, iniziò ad affiancarmi nel lavoro apprendendo velocemente sia la pratica che il principio fondamentale che atteneva alla bellezza del giardino che prevedeva la cura amorevole con le forbici in luogo dell’orgoglioso dominio con il tagliasiepi. E così pini marittimi, tuie, querce, cornioli e lecci, siepi di bosso, di ginepro e di ligustro, colorate bouganville, rose multicolori, lavande, cespugli di ginestra, cisto, viburno e rosmarino, agavi e olivi, crescevano rigogliosi lungo i sentieri tracciati una sera di alcuni anni prima con un pennarello rosso su una mappa sbiadita. (3 segue)

Mauro Carlesso scrittore e camminatore vegano

Prima Pagina|Archivio|Redazione|Invia un Comunicato Stampa|Pubblicità|Scrivi al Direttore