Dalla Torre dei Balivi si vede una città a due facce: ricca fuori, spoglia dentro.
Dalle finestre, scorci di città romana, la veduta di Sant’Orso, il convento, campanili piccoli e grandi; più ravvicinate dimorano la nuova piastra e la lanterna illuminate sotto le quali si rifugiano le aule del conservatorio e la sala ipogea da concerto; tutto intorno, la città frastagliata e discorde dei palazzi cresciuti agli anni del boom, nel secolo scorso: non una, ma milioni di storie dentro pietre, catrame e cemento.
L’apice della torre al suo interno è però nudo, sovrastato da un reticolo di travature e capriate composite antichissime, rassicuranti per l’equilibrio conservato tra spinte e controspinte, pesi e contrappesi nonostante le tonnellate di neve e le tempeste di vento e saette sopportate nei secoli: dovremmo imparare che, per reggere gli eventi non basta un braccio solo ma molte braccia, diverse per spessore, età, collocazione e costituzione; dovremmo anche capire che, talvolta, è utile stare fermi e tesi per conservare il rifugio, per stare al riparo…
Scendendo da una scala ellittica in ferro che pare sospesa nel vuoto a evocare ingegno e leggerezza, forza vorticosa e stabilità il nostro orizzonte si stringe lungo le pareti della torre. Qui, dove le celle nascondevano prigionieri costretti alla penombra, separati dal mondo con mura spesse cinque metri si scorgono segni, parole, immagini scarne e seppiate: quello che resta di un tempo negato, una rete di rughe sul volto di un vecchio.
Di quante grida resta l’eco in questi androni vuoti, contorti, enigmatici… che odori si saranno miscelati nell’umido della pietra tra cibo, sudore e sterco, quanti secondi e minuti e ore avranno contato le persone costrette lì dentro nell’attendere un suono di chiavistello, un varco di luce più largo che, abbagliando la fronte, lasciasse allungare l’ombra alle spalle e li restituisse al vivere…
Per fortuna, più sotto, un’orchestra d’ottoni proietta, in suoni, immagini di film della mia giovinezza, quando scrutavo i miei genitori ballare lenti con amici dalle basette lunghe e i pantaloni larghi, giacche spigate e cravatte molli… E m’immaginavo quali misteri nascondessero dietro al fumo delle Merit, ai ballon di brandy e pregustavo come fosse succoso ed eccitante il sacro fuoco dell’amore… O ancora, documentari dell’Istituto Luce dove scorrevano filari di pini marittimi ai lati delle solide vie consolari dai bacoli ben levigati, ancorati a prati ingialliti dall’arsura e tempestati di ruderi e lapidi: allora la mente vagava nel tempo illudendosi che, oltre noi, qualche cosa di bello potesse restare…
Questi giovani artisti che soffiano dentro strumento dorati come sfondi d’icone bizantine e, per contrasto, indossano abiti neri e cravatte sgargianti squarciano, seppure per pochi minuti, le mura più spesse, le paure più nere e spengono, sopra una messa di voce o un filo di fiato tenuto per molti secondi sospeso, il nostro presagio di morte.
Veduta di Aosta dalla Torre dei Balivi
E quando il giovane direttore si volta verso di noi mostrando una barba ramata, scozzese rubata a un suonatore di cornamusa e confessa, con distinto accento siculo, che la nostra terra resta la sua casa, anche se vive e lavora in molti altri posti del mondo mi rafforza nell’idea che i pensieri poetici corrono oltre le frontiere, gli sforzi per suonare insieme tra smilzi e robusti, sfrontati e timidi, ciarlieri e taciturni, ucraini e russi stemperano i contrasti, attenuano gli istinti di sopraffazione, fanno emergere quell’evidenza dalle radici biologiche più profonde: siamo identici per il 99,9%, il resto è poca cosa e gioca contro il desiderio di unità, che va oltre il miserabile istinto a distinguersi ad ogni costo, a marcare ciò che è mio e ciò che è tuo.
Balivi tours des prisons
Se i potenti della terra coltivassero buona musica, penserebbero meno a guerreggiare, perché sarebbero rapiti dalle armonie, dalle consonanze, dalla bellezza del confondersi, con la propria, specifica voce, in un unico suono orchestrale e apprezzerebbero le vicinanze piuttosto che chimere lontane, preferirebbero le policromie alle grisaglie, si interrogherebbero sulla morte, ma non la scatenerebbero come risposta sorda ad assurdi perché.
Dietro alla massa di suoni potenti, lungo la trama di ritmi sgranati e incalzanti la bandiera azzurra e gialla proiettata sullo sfondo del palco si popola ai miei occhi di donne dinamiche e bimbi chiassosi che resistono alle bombe, si aggrappano a noi per ridarci speranza: siamo noi, infatti ad averla perduta.
La speranza di vedere città senza mura, d’incontrare animi liberi, quieti e impegnati nella cura del Tempo, che, se amato, non scorre e distrugge, ma indugia e realizza bellezze, da aggiungere alle altre forme vitali del mondo.
Progetto illuminazione complesso dei Balivi