La scorsa settimana è stato annunciato dal Presidente del Consiglio, con il solito gran cerimoniale, il decreto “Semplificazioni”. Come da copione il documento è in attesa di definizione “salvo intese” (un modo politico per dire che vi sono dissensi), ovvero un “niente giuridico”, di fatto subordinato ad ulteriori trattative tra le forze di maggioranza.
Del resto, siamo ormai abituati ai proclami in diretta facebook e soprattutto ci siamo arresi al “nulla”, considerato che tra i due governi Conte sono ben 570 i decreti da adottare, così che oggi sembra più facile aprire un cantiere che far diventare operativa una legge.
Volendone fare la contabilità, con riferimento ai soli provvedimenti assunti durante l’emergenza Coronavirus rileviamo che il decreto “Cura Italia” prevede 30 decreti attuativi, ne mancano ancora 19; per il decreto “Liquidità” restano da predisporre ancora 8 decreti su 12; per il decreto “Rilancio” ne mancano all’appello ben 77 su 103.
E’ evidente che, finita l’emergenza da Covid19, non vi sarà probabilmente bisogno di alcun decreto, con la conseguenza che quei provvedimenti, pubblicizzati con conferenze stampa urbi et orbi, resteranno inattuati.
Per il decreto Semplificazioni vi è un ulteriore problema, di non poco conto, ovvero la necessità di riformulare il reato di “abuso d’ufficio”, da cui in parte dipendono i ritardi e le inefficienze della pubblica amministrazione, posto che nessun amministratore pubblico vuole correre il rischio di essere attratto nel vortice di vicende ed indagini giudiziarie che durano all’infinito nell’italica repubblica giudiziaria.
Da alcune indiscrezioni trapelate parrebbe che in una prima formulazione del decreto addirittura il reato risulterebbe di fatto abrogato, scatenando così una immediata reazione da parte dei pubblici ministeri, increduli di fronte a tanta audacia.
Di conseguenza, prono al volere di chi in questo periodo dovrebbe tenere un basso profilo (in considerazione di quanto sta venendo alla luce con riferimento alle vicende del dott. Palamara), il Governo ha subito previsto un correttivo ampliando la definizione del reato così da ammettere un’interpretazione assai ampia che consentirebbe di punire l’inosservanza di regole di condotta puramente formali o di tipo procedurale.
In questo modo, probabilmente, il tentativo di ovviare al male risulta peggiore del male stesso. Si continuerà a sindacare penalmente non la corruzione, ma la discrezionalità amministrativa, sulla scorta di vaghi principi generali, quali il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione.
Del resto, il Paese è abituato ad assistere a decine di migliaia di processi per abuso d’ufficio finiti nel nulla e con costi aggiuntivi per le difese degli indagati a carico delle pubbliche amministrazioni ovvero di noi tutti. Penso ad uno dei principi stabiliti dalla Corte Suprema americana secondo cui la pubblica accusa non deve strumentalizzare le leggi e la giurisdizione per imporre standard di moralità o canoni di buon governo, ma deve porsi l’obiettivo di verificare scrupolosamente (ed ora aggiungerei, con imparzialità e indipendenza, lette le cronache di questi giorni) la sussistenza di elementi costitutivi di reato.
Ma, forse, questo è pretendere troppo in Italia. Sempre la settimana scorsa i giovani professionisti sono scesi in piazza a Roma per rivendicare al Governo la propria posizione in seno al mondo produttivo nazionale e manifestare le proprie proposte, ossia una minor pressione fiscale e l’estensione dei contributi a fondo perduto anche alle categorie professionali.
Una richiesta di attenzione proveniente da professionisti under 40 che rappresentano il 40% degli oltre due milioni autonomi iscritti agli albi. Peccato che il Governo preferisca rivolgersi a task force, costituite da esperti a carico dei contribuenti, piuttosto che dare ascolto alle proposte provenienti dai Consigli nazionali delle professioni.
Questa scelta, incomprensibile, conduce nella realtà a leggi complicate, farraginose e difficili da interpretare. Il risultato sono inefficienza ed inefficacia.
Rimanendo sul tema di inefficacia il Governo, con emendamento a firma M5S, nel corso dei lavori parlamentari per la riconversione in legge del Decreto Rilancio, ha prorogato l’utilizzo dello smart working per il personale della Pubblica Amministrazione sino alla fine del 2020, disponendo inoltre che la struttura dirigenziale dello Stato si attivi per allargarla sino al 60% dei dipendenti nel 2021.
A mio avviso il lavoro agile può essere una grande innovazione ma non può essere realizzato da un giorno all’altro. Si sta interpretando il concetto di smart working come se fosse telelavoro, invece è un cambio di paradigma che coinvolge sia il settore pubblico che il privato; un cambio che deve puntare all’efficienza. Pensare di avere il 50 o il 60 per cento di dipendenti pubblici gestiti con modalità diversa dalla presenza, senza aver fatto prima una modifica della Pa, senza aver prima messo i funzionari nelle condizioni di poter lavorare anche lontano dall’ufficio, pare velleitario e molto pericoloso.
La transizione verso il lavoro agile deve essere graduale e accompagnata dalla formazione dei funzionari e dal potenziamento delle infrastrutture digitali, altrimenti diversi settori economici così come il lavoro degli studi professionali rischiano di rallentare ulteriormente con grave danno per l’economica nazionale, già sufficientemente provata dal Covid19.
Nella nostra Regione, dopo un iter piuttosto complesso, è stato approvato il terzo pacchetto di misure a sostegno delle imprese e delle famiglie valdostane. Documento criticato da tanti, eppure dagli stessi approvato. Solo il centro destra ha mantenuto una posizione coerente non condividendone il contenuto già della prima versione e non approvandone la definitiva in sede consigliare.
I punti controversi della legge regionale risiedono nella sua complessità e articolazione che fanno ritenere che i tempi di applicazione saranno piuttosto lunghi. Si richiedevano interventi rapidi a sostegno dell’economia locale, e invece a luglio le imprese sono ancora in attesa dell’esecutività di alcuni provvedimenti contenuti nella precedente legge regionale, approvata nel mese di aprile. Inoltre ci sono seri dubbi sulla copertura finanziaria di buona parte delle misure, tra cui i contributi a fondo perduto. Sospetti che non provengono solo dall’opposizione ma che circolano anche tra gli uffici tecnici regionali.
Non mi intendo di retro pensiero e tanto meno di affinità elettive, però credo che lavorare sino all’ultimo, su di un tema delicato come il fondo perduto alle imprese valdostane, con l’obiettivo di avere un provvedimento supportato dalle adeguate coperture finanziarie sia un chiaro segnale di serietà, buon senso e realismo; non mi pare possa essere descritto come un comportamento folle e soprattutto dettato da meri interessi politici.
Altro argomento di discussione è stata la scelta di alcune forze politiche di utilizzare i fondi destinati agli enti pubblici e soprattutto ai comuni per sostenere e “finanziare” i propri emendamenti.
Non entro nel merito, mi limito ad una considerazione tecnica: fondi destinati ad investimenti di lungo periodo, quali, per esempio, le opere pubbliche comunali, sono state riallocate per finanziare interventi di breve periodo. Così facendo degli investimenti sono stati trasformati in spese correnti.
Peccato che i primi sono tali perché producono un ritorno economico nel lungo periodo mentre le seconde sono semplicemente dei costi, che come al solito dovremo sopportare noi contribuenti. (www.studiolaurencet.ithttp://www.studiolaurencet.it/http://www.studiolaurencet.it/)