"L'idea di una conversione, nel senso che adesso diamo a questo termine, è restata a lungo, forse fino all'avvento del cristianesimo, totalmente estranea alla mentalità greco-romana". Questa impegnativa asserzione - che, pur con sfumature che in sede di dibattito storiografico le si possono apportare, rimane sostanzialmente condivisibile - apre il libro di Gustave Bardy, La conversione al cristianesimo nei primi secoli, pubblicato nel 1947 ma ancora oggi ricco di spunti. In teoria, sappiamo cosa significa la parola conversione: una trasformazione radicale del modo di pensare e di vivere. Ciò implica (ma questo è già oggi meno scontato) la rottura e il rinnegamento di ciò che si era in precedenza: è un sì a qualcosa che comporta necessariamente un no a qualcos'altro. La conversione, se è vera, è sempre in qualche modo una morte. Perché il mondo antico era estraneo a questo concetto di conversione? Un primo motivo, secondo Bardy, è che la religione greco-romana era una religione tradizionale, che faceva parte integrante dell'ambiente civile e non era neanche pensabile spogliarsene per aderire a un altro sistema religioso. Un'altra ragione di estraneità si lega, secondo Bardy, al formalismo della religione. Citando Cicerone, egli ricorda l'etimologia di religio da relegere, cioè ripassare scrupolosamente tutte le azioni del culto agli dèi. Questa è, nella cultura greco-romana, l'essenza della religione. Il Dio cristiano, però, è un dio che non si lascia sistemare da nessuna pratica religiosa: facendosi uomo e annullando ogni separazione, ci ha privato di ogni spazio riservato. Anche per questo il cristianesimo antico, nel suo approccio alla società greco-romana, ha sempre rifiutato di presentarsi come una delle religioni presenti nello spazio pubblico. E ancora, c'è, secondo Bardy, una differenza fondamentale nel modo di concepire la santità. Certo, è universalmente accettato che "santo" è ciò che appartiene solo a Dio ed è separato dall'uso comune degli uomini. Ma la santità può restare un fatto esteriore, che riguarda la purità fisica e rituale, oppure approfondirsi nel senso di un'appartenenza totale della persona a Dio. Ancora una volta, tocchiamo qualcosa che ci riguarda come "neopagani": mai come oggi, in mezzo a un inquinamento morale e materiale senza precedenti, c'è stata tanta nostalgia della purezza. Ma la purezza tanto vagheggiata è quasi sempre concepita come un fatto fisico; è l'espressione di un salutismo che riguarda cose come l'alimentazione, la distensione del corpo e l'equilibrio delle sue funzioni organiche, un'armonia alla quale deve concorrere anche la purezza del pensiero. Il rischio è che si scambi per conversione l'adozione di un più sano regime di vita, una più attenta cura di sé, il potenziamento delle proprie facoltà, ma convertirsi non è, appena, sforzarsi di diventare migliori.





